Quante parole vuote consumano i nostri giorni, parole cangianti che non hanno autorevolezza perché non esprimono il legame con la vita. Infatti viviamo una sorta di dissociazione tra parole e gesta, promesse e opere, quello che la mente dice e ciò che il cuore sceglie, stiamo come in vite parallele con l’illusione di potere gestire tutto e, in realtà, interiormente siamo sempre più divisi e tristi. Abbiamo bisogno di unità interiore, di integrità spirituale perché altrimenti perdiamo la forza, la capacità di camminare e raggiungere la meta.

C’è un nesso inscindibile tra parola, verità e felicità. La menzogna spegne le relazioni riducendole, semmai, ad un piano formale fino a trasformare l’amore in mercimonio, e l’incontro in calcolo interessato. La spontaneità è propria della verità e della libertà, dei rapporti autentici e della condivisione generosa.

È su questo piano che Gesù incontra i suoi interlocutori entrando in relazione profonda con essi e illuminandoli con la Parola frutto del dialogo con il Padre. L’autorità di Gesù sta proprio in questa novità, il suo parlare non è una mera ripetizione della tradizione conosciuta, ma un darle compimento rivelando il volto misericordioso di Dio. Tutto l’Antico Testamento, dunque, ha preparato ad accogliere il lieto annuncio evangelico che apre la via alla piena comunione con il Cielo.

Eppure quanti ascoltano la Parola del Nazareno resistono perché l’ascolto implica un radicale cambio di prospettiva: significa accettare che Dio si china donandosi aldilà dei meriti personali e che ciascuno è bisognoso di Lui perché, altrimenti, troppo fragile. Per ascoltare bisogna lasciarsi dirigere in quanto la Parola porta oltre la preservazione di se stessi, essa è dono da condividere.

La Parola ha il potere di dividere e riconciliare, ferire o sanare. Il profeta è custode della Parola di Dio e pertanto è chiamato ad esprimerla con la propria vita. Rimanere indifferenti, in base al tornaconto personale, significherebbe cadere nel compromesso e quindi nella menzogna. È per questo che il profeta annuncia la volontà di Dio anche se questo potrebbe costargli la vita, per lui la Parola diventa una necessità esistenziale e tacere equivarrebbe a morire.

Nel brano evangelico di questa domenica (Mc 1, 21 – 28) troviamo Gesù che, entrato nella sinagoga a Cafarnao, provoca la reazione di uno spirito impuro. Fino a quel momento all’interno della sinagoga non era risuonata la Parola capace di discernere ciò che è in comunione con la vita di Dio e ciò che le si oppone. Anche la religione può entrare nel compromesso e ciò accade quando si cerca di difendere il potere piuttosto che la causa degli ultimi con cui, però, Dio si identifica.

L’essere puri per Israele comportava consegnare totalmente a Dio la propria esistenza, ad esempio le donne dopo le mestruazioni o il parto dovevano purificarsi perché così riconoscevano che il dono della vita apparteneva a Dio e non alle proprie capacità, allo stesso modo l’offerta del primogenito al Signore equivaleva a intendere la discendenza e la propria storia come appartenente a Dio. È la relazione con il Cielo e l’ascolto della Parola, dunque, a dare senso ad ogni cosa e a renderla pura.

Lo spirito immondo, creatura che si è resa antagonista a Dio, si ribella a quest’ascolto, non tollera il piano salvifico di Dio per l’umanità intera, riconosce la santità di Gesù ma senza fede in Lui. Il conoscere non equivale a credere, e lo stare in preghiera non significa automaticamente consegnare la propria vita al Cielo.

L’ingresso di Gesù nella storia dell’umanità svela questa dicotomia del cuore e la falsità propria del compromesso. La doppiezza si manifesta pure nella parola dello spirito immondo il quale afferma: “sei venuto a rovinarci”. In realtà il Figlio di Dio è venuto per salvare ma lo spirito impuro ha scelto una direzione opposta che porta verso la distruzione. La luce portata da Cristo svela tale inganno e mostrando la distanza che separa dal Padre offre l’opportunità di conversione e di cammino alla sequela del Maestro.

La proposta di Dio, allora, chiede una scelta radicale ma è frutto della sua misericordia e non del giudizio volto a condannare. È secondo questa prospettiva che leggiamo le parole della poetessa statunitense Emily Dickinson quando scrive: “Di’ tutta la verità ma dilla obliqua, il successo è nel cerchio, sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia la superba sorpresa del vero. Come il lampo è accettato dal bambino se con dolci parole lo si attenua, così la verità può gradualmente illuminare, altrimenti ci accieca”.

Non si tratta di entrare nel compromesso o di fare patti con la disonestà. Piuttosto nel proclamare e restituire la verità bisogna tenere presente se l’obiettivo è quello di distruggere l’altro e così affermare se stessi, oppure se si intende accompagnarlo per favorirne la conversione e la salvezza. Da questa scelta dipenderà il custodire la Verità o, altrimenti, il tradirla fino a farla scivolare nella menzogna della propria grandezza.