Parola e realtà concreta, oggi, sembrano assumere traiettorie divergenti. Si fa un uso affabulatore della parola che, di fatto, non corrisponde a quanto si vive e neppure a quello che si desidera realizzare.

La nostra società spesso è scissa tra idealità e prassi di vita e ciò perché si parte dal nozionismo e dal trattare passivamente l’interlocutore come se fosse un contenitore da riempire privo di capacità critica.

Il significato delle parole, addirittura, può essere storpiato e contestualizzato all’interno di un senso paradossale come accade nell’ambito della corruzione, della geopolitica o nel linguaggio mafioso: quando l’amicizia, che dovrebbe essere legame gratuito, è intesa come affiliazione legata agli interessi privatistici; quando la famiglia, che costitutivamente sorge dall’amore vicendevole, è vincolo di ricatto punito con la morte; o quando la pace viene tradotta quale tregua tra due popoli che continuano a trattarsi con spirito di competizione e di inimicizia.

Eppure, nella conoscenza e nel senso delle parole, il punto di partenza è la relazione perché l’apprendimento e il linguaggio sono resi possibili dall’interazione con ciò che ci circonda come, ad esempio, non potremmo parlare della dolcezza dei gelsi di Danisinni senza averli, prima, assaggiati.

Anche la vita spirituale passa per l’esperienza e non per le idee astratte o le speculazioni centrate sulle proprie conoscenze. La Parola di Dio è evento concreto, realizza quello che dice.

Il Vangelo (Mt 28, 16-20) di questa domenica, intitolata alla SS Trinità, esprime questo tratto di concretezza necessario per non cadere in una visione astratta di Dio. Ci sono delle coordinate essenziali a tradurlo:

il numero dei discepoli, undici, mostra la ferita data dalla mancanza di Giuda e quindi la fragilità di cui la prima Comunità è consapevole e, perciò, rimangono discepoli e quindi in ascolto del Maestro che li conduce con la sua parola nel cammino della vita;

si portano su un monte in Galilea quale luogo della quotidianità e, al contempo, lì dove Gesù ha mostrato tangibilmente l’ascolto del Padre, quindi sono chiamati ad entrare in questa relazione intima con il Cielo; vedono, adorano e dubitano, cioè l’incontro non è pienezza ma rimane tensione e desiderio di approfondimento, nel dubbio sta la condizione della fede che rimane libera e mai costrittiva, altrimenti non ci sarebbe affidamento.

La fede matura in questo legame fiducioso in cui ciascuno riconosce di essere frutto del dono altrui. Ma per comprendersi è necessario scoprire la relazione che Dio instaura con noi, senza la quale non avremmo chiave ermeneutica per leggere il senso dell’esistenza personale.

Questa postura iniziale permette di accogliere il potere consegnato dal Padre al Figlio. Fino a quando si rimane con un’idea astratta di Dio si fraintende sul tipo di potere intendendo l’onnipotenza come un giudizio formale e punitivo privo di relazione intima con la creatura. È l’incarnazione di Gesù a svelare il cuore del Padre e, dunque, il suo potere.

Mentre il nozionismo vorrebbe garantire l’autosufficienza, accogliere il dono del Figlio equivale ad uscire da se stessi per affidarsi pienamente. È l’esperienza battesimale di immersione nella vita offerta da Lui ma per immergersi nella vita di un altro bisogna smetterla di credere di bastare a se stessi.

La Comunità cristiana, allora, trova senso in questa testimonianza: attraverso la propria esistenza rivelare la vita di un Altro che abita in noi.

Non si tratta di dovere fare delle cose ma di accogliere il dono che si rivela nella propria quotidianità mostrando il rapporto filiale che abbiamo con il Padre che è nei cieli. Senza questa trasparenza la spiritualità cristiana perde di significato e di autenticità, diventa una struttura formale priva dell’amore che l’anima.

Il mistero della vita di Dio, che è relazione d’amore, si apre pienamente all’umanità di cui il Figlio ha assunto la fragilità della condizione e il Suo rimanere con noi emerge proprio dalla testimonianza di ciascuno, in quanto chiamati ad accogliere in pienezza il dono.

Accogliere una persona nella propria vita è ben diverso dall’accogliere in dono un regalo seppur prezioso, e nella relazione filiale con Dio il principio è sempre il perdono e quindi la gratuità del Suo amore che viene consegnato con la vita stessa del Figlio.

La conoscenza, dunque, è possibile solo nell’amore e il rapporto con Dio educa ogni tipo di relazione che si può instaurare, è così che si traduce la prossimità evangelica differenziandosi da ogni tipo di filantropia. Per ogni cristiano, dunque, è accogliendo il dono del Cielo che si può essere dono qui in terra.