Guardando Danisinni non puoi non stupirti per la creatività messa in campo nell’esprimere quanto di più profondo e indicibile appartiene al mistero della vita. La stessa creatività che permette alla gente del luogo di non confondersi o lasciarsi intimorire di fronte alle incertezze del proprio quotidiano.

In un contesto di precarietà estrema non ci si può nascondere dietro le parole perché, queste, devono essere essenziali e dirette per lasciare spazio ai gesti del quotidiano e non alle opere eclatanti come gli interventi spot di stampo coloniale ma alla condivisione che rende prossimi e capaci di reciprocità.

La comunicazione nozionistica, infatti, non trova dimora nel rione e le parole altisonanti vengono spente con un perplesso “ma chi’ voli riri”.

Il Racconto della Passione secondo Danisinni ha aperto la Settimana Santa attraverso una drammatizzazione dialettale ad opera degli abitanti della piazza.

Non si è trattato di una recita ma di una preghiera elevata al Cielo dal profondo della terra. Più in basso stai e maggiore è il grido consegnato e che resta in attesa di ascolto, così come le parole urlate da Salvo – nei panni del buon ladrone – dalla croce accanto a Gesù: “nun ti scurdari ri mia quannu sarai ntô to’ regnu”.

Essere tenuti nella memoria di Dio è il desiderio più intenso, cioè custoditi e tenuti cari dal Suo amore. Noi viviamo di memoria perché la gratitudine sgorga da un cuore carico di ricordi e ciò procura continuità storica, senso di sé e appartenenza. Questo non significa avere avuto un trascorso tranquillo e senza esperienze dolorose ma avere permesso alla luce di tenere quanto è prezioso, lasciando perdere tutto il resto.

Una specifica differenza tra noi umani è data dalla luce a cui attingiamo per leggere il nostro passato. La tendenza culturale ad interpretare secondo una lettura traumatica la biografia personale ha inficiato questa capacità trasmettendo una idealizzazione di quella che doveva essere la propria storia. Un ideale di perfezione mai raggiunto e che porta, quale conseguenza, ad un sentimento di delusione e di rivendicazione come se il passato si potesse cambiare!

Danisinni, piuttosto, esce da questa modalità astratta e si confronta con l’immediato quotidiano senza riserva alcuna. Non c’è tempo da perdere nei rammarichi, piuttosto c’è un eterno presente da attraversare per sopravvivere.

Il racconto della Passione mostra il volto di un uomo che vede e agisce, Gesù non sta a calcolare secondo criteri di convenienza ma entra in rapporto con l’altro secondo un movimento compassionevole che non lo lascia estraneo alle vicissitudini dell’interlocutore.

L’ultima cena è solo l’epilogo di questo atteggiamento che già lo aveva portato a rischiare in prima persona pur di guarire il lebbroso di sabato o intervenire per custodire la donna adultera che stava per essere lapidata. In quella cena, ora, condivide la mensa con i suoi discepoli e dichiara il volersi donare anche per Giuda che lo stava tradendo.

Farsi vicino all’umanità più distante, e cioè peccatrice, per Lui equivaleva a non lasciare nessuno escluso e, perciò, il tradimento di Giuda non diventa motivo di rancore ma occasione per restituirgli la sua amicizia senza confini.

La libertà per l’altro appartiene a chi non si lascia condizionare dalle prove dell’esistenza e che, piuttosto, trova nella gratuità il modo per sottrarsi alla tossicità relazionale. Entrare in un rapporto dipendente, infatti, equivale a lasciarsi dominare dal comportamento altrui permettendogli di determinare le proprie reazioni. Noi siamo scelta e non reazione a quel che ci accade attorno, altrimenti si perderebbe facilmente la direzione e ciascuno rimarrebbe in balìa dei ricatti altrui.

La libertà autentica, invece, permette di prendersi cura in modo gratuito di ciò che altri hanno ferito. Non possiamo riparare solo ciò che è stato danneggiato da noi, questo sarebbe comunque un bene egoista per assolversi dal senso di colpa. Il bene circolare è qualcosa di più e scaturisce dalla relazione comunionale con il Cielo. È questa l’esperienza testimoniata da Gesù e consegnata ai discepoli, Lui sulla croce eleva un’ultima preghiera al Padre chiedendo perdono per i crocifissori e, dunque, prega per portarli tutti in paradiso, in fondo è questo il senso della Sua incarnazione.

I discepoli sono chiamati ad annunciare attraverso la propria testimonianza di vita ed è questo passaggio a generare stupore perché si riconoscono incapaci di rispondere a così tanto amore malgrado le loro fragilità. Eppure si immergono in questa avventura inedita, si fidano più del Suo amore che delle opere che hanno visto, la loro non è una fede suggestiva fondata sul miracolismo ma una esperienza maturata dalla fedeltà di Dio che non li ha abbandonati alle loro derive. È questa la sintonia percepita dal popolo di Danisinni, dai bambini agli anziani, tutti commetavano: talia quantu u ficimu soffrire… quantu ci vuleva beni”.