Mettere dei confini non significa escludere l’altro. Il frainteso nasce dal fatto che abbiamo mutato le frontiere da luoghi di incontro per riconoscersi e vivere il reciproco scambio, in steccati per rifiutare o espellere l’altro considerato straniero  e cioè diverso e, dunque, da eliminare.

È la stessa prospettiva delle fratellanze, assai diffuse nel nostro Paese, le quali uniscono alcuni per escludere altri, trasformandosi in lobby di dominio volte a favorire gli adepti e ad esercitare potere su chi ne rimane fuori.

Il tema dell’inclusione sociale se da un lato lo si ritiene prioritario nei programmi politici delle nostre Città, dall’altro si continua a generare scarto umano costruendo spazi anonimi incapaci di relazione perché votati ai consumi e alla produzione di sempre nuove dipendenze. Pertanto, sebbene lo spazio urbano teoricamente venga inteso quale luogo di connessione e prossimità, in realtà viene pensato come luogo di accessibilità limitata o di individualità disconnesse malgrado l’apparente vicinanza.

Il tema dell’abitare è un tema relazionale ma, oggi come ieri, l’attenzione viene spostata sui programmi per garantire la propria sopravvivenza a discapito dell’altro, e così nascono le derive delle discriminazioni razziali o le ideologie che riescono a trasformare in guerriglia urbana anche un pacifico evento sportivo.

Il cambiamento di prospettiva è l’unica via evolutiva possibile e questa abbisogna di luce e cioè di un confronto che esce dalla logica autoreferenziale, per aprirsi all’ascolto dell’altro e della storia che lo circonda. Fino a quando l’individuo rimarrà trincerato nella pretesa di affermare se stesso, quale unica ragione di vita, allora non ci sarà spazio per una luce inedita capace di svelare il mistero dell’esistenza la quale è molto di più della solitaria comprensione delle cose.

Il Vangelo (Gv 9, 1 – 41) di questa domenica ci propone l’incontro tra Gesù e un cieco nato il quale rappresenta tutta l’umanità bisognosa di vedere in modo rinnovato. La più grande resistenza che trova è il pregiudizio di quanti gli stanno attorno e che colgono nella fragilità del cieco il motivo di una condanna. Loro rivelano la cecità del cuore che è più grave di quella fisica proprio perché procura sofferenza e, sovente, la morte altrui!

Il vero male non è la fragilità o la limitatezza umana ma l’ostinazione nel rivendicare ragioni per impedire il bene. Loro sono gli stessi che giudicheranno Gesù perché si prenderà cura del cieco in giorno di sabato, in quanto la loro religiosità “supera” la stessa possibilità di bene operata da Cielo.

L’agire del Rabbi non si ferma dinanzi alla loro chiusura, Lui si compromette trasgredendo il sabato e cioè portandolo alla sua pienezza che è la scoperta della paternità di Dio. Simbolicamente il prendersi cura viene espresso da quella terra impastata con la saliva, così essenziale per la parola ed il dialogo.

Assistiamo ad una nuova creazione che è propria del chinarsi di Dio il quale si fa compagno di cammino dell’umanità, fino a donare la sua stessa vita.

Il prendersi cura, infatti, è legato al mettere del proprio, così come il Samaritano della parabola che arresterà il viaggio per soccorrere il moribondo.

Gesù puntualmente si ferma dinanzi ai fragili della storia, ad esempio, ciò era avvenuto per Zaccheo il quale nel tentativo di vederlo si era scoperto visto e riconosciuto, la conseguenza era stata il condividere la mensa e i suoi averi con i più poveri.

L’incontro con il Maestro, dunque, procura luce interiore la quale permette di vedere fuori e dentro se stessi.

L’altro, cioè, svela quello che siamo provocando una risposta autentica se rimaniamo in ascolto. Così ottocento anni fa è stato per Francesco d’Assisi che, una volta avvicinatosi al lebbroso, ha scoperto di essere fratello senza più bisogno di mascherare la propria fragilità con la parvenza dettata dall’ideale cavalleresco. Francesco si scopre piccolo e, per questo, amato.

Il cieco imparerà a vedere e ad orientarsi, questo perché si è messo in ascolto e si è lasciato condurre dalla voce del Maestro. Tutti  abbiamo bisogno di trovare la Luce vera a cui esporci, la Parola capace di sanare e orientare il cammino della vita.

Sulla via che portava a Gerico erano passati anche un sacerdote e un levita ma erano rimasti indifferenti, timorosi di contaminarsi ed essere resi impuri. Il Samaritano, invece, volgeva il suo cammino e lo sguardo in direzione di Gerusalemme, dunque, verso la luce che gli ha permesso di vedere e andare oltre le apparenze.

Ricordiamo come il cieco guarito sarà cacciato fuori dai farisei, perché quel bene non corrispondeva alle loro aspettative, e anche Gesù sarà respinto fino ad essere, poi, crocifisso fuori le mura di Gerusalemme.

C’è un senso assai prezioso nella Parola che ci viene consegnata quest’oggi, abbiamo bisogno di discernere a quale luce esporci per leggere la storia e comprendere le scelte per le quali spenderci.

Sembrano, i nostri giorni, assediati da tanti proclami vuoti di umanità, svuotati di senso e di paesaggio interiore. Abbiamo bisogno di tornare a prenderci cura dei luoghi relazionali, della cornice paesaggistica su cui fare scorrere la vita, custodire frontiere per rimanere gli uni in cammino di fronte agli altri.