Perché si carica un gruppo di studenti che vorrebbero manifestare a favore di un popolo, quello Palestinese, profondamente oppresso dall’ingiustizia di un secolo?

Perché un tragico evento di efferata crudeltà, quello di Altavilla Milicia, continua ad essere raccontato con dovizia di particolari rincarando la morbosità degli spettatori di così tanto orrore?

In entrambi i casi si cerca di spegnere il pensiero critico, sia attraverso la repressione che la spettacolarizzazione, per ciò che abbisogna di spazio di riflessione ed espressione di maturo disappunto.

Pensare permette di vedere oltre l’immediato e procurare un’adeguata distanza favorisce un punto di osservazione altro, personale e differente da quanto è per tutti scontato.

Sembra che ai nostri giorni discostarsi dalla tendenza al conformismo costituisca un’anomalia, come se la verità fosse da ricercare in termini quantitativi: quello che tutti pensano è senz’altro vero!

Secondo questa prospettiva non ci sarebbero più profeti e testimoni capaci di osare il rischio di una visione che vada oltre il conformismo e l’utile da preservare.

La guerra così come l’atrocità dei ricorrenti fatti di cronaca, sono sintomi di una società sempre più organizzata sull’individualismo dove si svaluta la dimensione relazionale e l’importanza dell’altro per la crescita comune.

La spinta narcisistica del “tutto e subito” o del “fa ciò che vuoi” porta a deliri onnipotenti in cui l’affermazione di sé è l’obiettivo da perseguire anche a costo di nuocere all’incolumità altrui. Il dominio sull’altro o le mire di ricchezza sono presentati con la promessa di un appagamento totale ma, in realtà, portano a sperimentare una costante frustrazione fino alla noia del vivere.

Senza relazione autentica in cui si scopre se stessi a partire dall’interazione con altro non c’è felicità. Senza orizzonte di senso dove il valore della propria esistenza è dato dall’amore che ci rivela il Cielo non c’è appagamento di vita.

La Parola di questa domenica ci riporta al paradosso cristiano in cui il dono procura ricchezza e il consumarsi per amore fa ottenere la pienezza dei giorni. Dapprima è la testimonianza di Abramo in Genesi 22 a mostrare come la fiducia nel Cielo rende fecondi e capaci di una eredità che non passa. Poi l’episodio della Trasfigurazione, in Marco 9, rivela cosa significa andare oltre le apparenze del calcolo.

L’episodio di Abramo emancipa il popolo d’Israele da una cultura idolatra, quella cananea, in cui l’offerta del primogenito voleva ottenere la benevolenza di Dio. Abramo è chiamato a fidarsi e non sarà permesso il sacrificio di Isacco perché “Dio provvede”. La religiosità, da allora, è portata ad assumere un orizzonte relazionale in cui il primato è dato all’ascolto e quindi all’accoglienza del dono di Dio e non alle opere volte a propiziarsi lo sguardo del Cielo. Abramo troverà un’eredità numerosa quanto le stelle del firmamento perché non si fermerà alla propria limitatezza ma rimarrà aperto all’azione di Dio che è sovrabbondante nel suo donarsi.

In una cultura meritocratica come la nostra questo passaggio trova parecchie resistenze ma è quello che caratterizza l’identità cristiana dove la relazione filiale è alla base del cammino: è la fiducia nella paternità di Dio a permettere di consegnare tutto, anche la propria fragilità e incapacità di risolversi da soli. Questo non comporta affatto una postura passiva, piuttosto provoca l’assunzione responsabile del prendersi cura della missione quotidiana, della storia affidata a ciascuno. La responsabilità del bene abbisogna della risposta personale che non può essere delegata ad altri.

L’episodio della Trasfigurazione, ancora, porta ad assumere uno sguardo contemplativo e cioè capace di andare oltre le apparenze. Pietro, rappresentante dei discepoli, precedentemente aveva intuito la missione del Maestro ma, poi, lo aveva rimproverato perché non accettava che questa potesse compiersi attraverso il dono di sé fino alla passione e crocifissione. La sua idea di messianicità, quale affermazione vittoriosa del Dio liberatore, non corrispondeva all’umile postura di chi si consuma per amore sino alla fine. Gesù lo invita a non ostacolare il cammino e a porsi dietro mantenendo l’ascolto del discepolo.

Ora lo chiama in disparte sul monte, insieme ad altri discepoli, per rivelare loro quale sguardo realmente permette di vedere. Lui si trasfigura ma non muta nell’aspetto, piuttosto, è lo sguardo dei discepoli ad essere nutrito dall’ascolto e non dall’idea preconcetta di quello che Dio dovrebbe essere e fare!

La fede si trasforma in religione quando si parte da un’idea o, ancora, da una dottrina a cui aderire. Questa deriva può portare al fanatismo religioso che non nutre una effettiva relazione con il Cielo ma costruisce principi e verità che, successivamente, vengono attribuiti a Dio.

La fede, invece, sperimenta la mancanza e perciò è desiderio di Dio. Non è una pratica per riempire un vuoto ma un cammino che gradualmente trasforma, fa acquisire i sentimenti e il pensiero dell’amato perché rispondenti alla sensibilità profonda che ciascuno porta.

Il processo di individuazione secondo la prospettiva cristiana, allora, non è frutto di una conquista di posizioni o ruoli rivendicati ma capacità di dono e non di possesso, di gratuità e non di avarizia, di sguardo rivolto all’altro prima che a se stessi. Ben altra cosa dalla emancipazione dei nostri giorni che chiama libertà la consegna a dipendenze schiavizzanti: non è libero chi fa quello che si sente di fare ma chi sceglie il bene anche se questo costa rinuncia o il rischio della propria vita, infatti l’amore non ha prezzo.