Il rischio di trasformare la fede cristiana in una sorta di ritualismo per sentirsi giusti è sempre presente, così come è diffuso il rischio di intendere la fede come un  moltiplicare opere buone prive di un’autentica relazione e di un nutrimento attinto dal Cielo.

Il ritualismo aliena dalla vita quotidiana e dalla misericordia verso il prossimo, così come il servizio privo della celebrazione eucaristica rivela individui che fondano le opere in se stessi.

Ma  ciascuno nasce dalla relazione, per cui è indispensabile partire dall’altro e così vivere la dinamica del dono dove solo chi accoglie è capace di donare.

In un tempo in cui con fatica si vive da testimoni e la parola personale è annacquata dal ripensamento del momento, la liturgia del triduo pasquale ci restituisce la testimonianza di Gesù il quale si pone come specchio per indicare la via da seguire.

Lui mostra un esempio concreto, prima con lo spezzare il pane per i suoi e poi con la lavanda dei piedi, per trasmettere cosa significhi offrire tutto consumandosi per amore del prossimo.

Non si tratta di un sapere nozionistico, non viene comunicata una teoria ma viene rivelato il senso delle cose attraverso la propria vita. L’individuo, diversamente, cerca rimedi preconfezionati, formule magiche che possano permettere di usare un potere per sottomettere la realtà a proprio piacimento. Gesù non salta la storia ma attraversa la croce perché si fida del Padre e sa che questa fiducia lo porterà oltre, perfino aldilà della morte.

Quando durante il giovedì santo celebriamo l’Eucarestia unita al gesto eloquente della Lavanda dei piedi, siamo chiamati a mantenere uno sguardo bidirezionale dove la relazione con il Cielo è intimamente unita con il dono verso il fratelli. La Comunità non può disgiungere le due mense, l’offerta a Dio sulla mensa eucaristica ha come corrispettivo il dono verso gli ultimi e accogliere l’Eucarestia ha autentico valore quando si accolgono i più poveri.

Il Vangelo narra come il Signore, in quella sera, amò sino all’estremo e cioè senza lasciare nessuno escluso, colmando ogni possibile distanza e solitudine. Il triduo pasquale esprime, dunque, il chinarsi di Dio che dalla mensa passa alla consegna ai carnefici fino alla crocifissione. Lui presenta tutto al Padre senza tenere più nulla per sé e in questa offerta è totalmente coinvolto fino a lasciare che il suo corpo venga crocifisso.

L’espressione dell’amore passa sempre per la materia, sono i piccoli e grandi gesti a rivelare la portata dell’amore, e nella materialità del pane, del lavare i piedi e dell’essere trafitti ed inchiodati sulla croce si rivela l’amore senza misura donato da Cristo.

Immergersi nel mistero pasquale, allora, è un’esperienza prima che una celebrazione o una comprensione di fatti. La Pasqua è ancora oggi passaggio e il Signore continua a presentare l’umanità al Padre, dunque è passaggio dalla condizione individualistica a quella filiale.

Questa postura relazionale apre alla fiducia e all’accoglienza della vita nuova, quella che viene regalata dal Cielo.