In una società, quando si ripudia il registro paterno, emergono i totalitarismi perché la mancanza di limite espone la personalità umana ad una grande vulnerabilità e le singole individualità divengono come massa informe.

Pensiamo al giornalismo d’inchiesta, ad esempio, diventerebbe altoparlante partitico se perdesse il registro paterno e cioè la capacità di stare sul pezzo reale approfondendolo aldilà dei rischi perché più alto è il valore della verità, della giustizia e del bene comune.

Anche il continuo attacco a REPORT in Italia è indice di una intolleranza nei confronti della coscienza critica del popolo e della condivisione dei saperi necessari per un sano discernimento e per svelare i giochi corrotti di una politica faziosa.

Se da un lato appare chiaro che il senso della paternità sia entrato in crisi, dall’altro si continua a pensare che essa equivalga all’esercizio arbitrario del potere sull’altro. Conseguenza di questo pregiudizio è l’avere sradicato ogni traccia di autorità all’interno delle nostre società occidentali in nome di una libertà scevra da senso del limite e, dunque, dalla relazione con l’altro.

L’equivoco è nato dall’avere associato paternità col rigore e la coercizione, con la disciplina e la proibizione. Di fronte a questa premessa è nato un cortocircuito intergenerazionale e in nome della “libertà” si è perso l’essere liberi!

Questo passaggio culturale, infatti, ha prestato il fianco al mercato dei consumi che ha subito colto, nella pretesa assenza di limiti, un alleato eccellente per fomentare l’appagamento di bisogni sempre nuovi a cui dare compulsivamente risposta.

Smarrita la figura del padre la nostra società ha reso presente una nuova legge dettata dalle mode a cui adeguarsi  e, così, omologare gusti, costumi e stili di vita. L’assenza di regole ha proiettato verso una nuova regola solo apparentemente libera ma, in realtà, unica per tutti. Gli acquisti e i bisogni vengono, dunque, dettati da un preciso piano di consumo per assoggettare e manipolare le scelte degli acquirenti ridotti a pedine da muovere nella scacchiera globale.

Di fronte a questo scenario, che pare avere smarrito un pensiero critico o eventualmente limitarsi ad un pensiero reattivo antagonista e dunque adattato al potere di turno, appare significativo recuperare il messaggio evangelico che duemila anni fa ha immesso nell’orizzonte umano una rivoluzione culturale in riferimento alla figura del padre e dei fratelli.

Non si tratta certo della fratellanza tanto propinata ai nostri giorni che unisce alcuni per escludere altri secondo una precisa logica di potere discriminante, come accade per le ex colonie europee in Africa che continuano ad essere sfruttate attraverso le multinazionali straniere, ma della fraternità che parte dal principio della filiazione che rende tutti fratelli dello stesso Padre.

La paternità intesa come cura e custodia dunque, il compromettersi del padre per amore del figlio. Il desiderio di bene per l’altro viene ad essere la prima testimonianza che favorisce un’eredità.

Se oggi si rimane orfani è perché non c’è una trasmissione ereditaria, ciascuno crede di autodeterminarsi e questa illusione narcisistica impoverisce i rapporti umani e determina una crescente malinconia dell’essere dove il vuoto esistenziale genera continua angoscia depressiva. La noia, così, prende il posto del desiderio e il baratro interiore si sostituisce alla mancanza dell’altro.

Oggi non c’è il bisogno di un fratello da ritrovare perché manca la nostalgia della sua presenza. L’illusione consumistica ha deviato la sensibilità del gusto risignificandola come fame di appropriazione che, di fatto, è inappagabile. Se il rapporto con gli oggetti prende il posto delle relazioni, e casomai oggettifica l’altro con cui si interagisce, ne scaturisce un possesso che non potrà mai sanare la fame d’amore che è il vero bisogno umano.

Senza amore le relazioni sono impoverite dall’interesse utilitaristico che procura frammentazione e isolamento. Per sanare questa profonda ferita nel Vangelo (Mt 23, 1 – 12) di questa domenica Gesù parla di una paternità che si traduce nel servizio ai fratelli e parla di una grandezza che è visibile nella piccolezza. Il rabbì per essere tale deve assumere la postura dell’umile servo e così mantenere quel titolo che, altrimenti, sarebbe privato di fondatezza. Questo è , ad esempio, dice della paternità quale servizio per i fratelli, anzi aggiunge che “il grande”, cioè il rabbì, deve essere il più piccolo di tutti. I conti non tornano secondo questa prospettiva, il primo diventa l’ultimo e viceversa come ad indicare l’unico modo di esercitare la paternità in questo mondo perché solo nel riconoscersi figli del Padre è possibile custodirsi dalla illusione di dare vita all’altro.

La paternità di questo mondo, allora, assume il valore del condividere del proprio assumendosi la responsabilità degli ultimi e cioè di quanti apparentemente non hanno valore in questo mondo. Tale è l’esperienza di Francesco d’Assisi il quale un giorno scoprì la prossimità del lebbroso che non gli era più straniero ma gli apparteneva intimamente.

Appartenersi è il segno dell’amore, fare spazio dentro di sé per accogliere e consegnare l’altro alla vita è il movimento generativo proprio della misericordiosa. Francesco d’Assisi ebbe a riconoscere nel volto del Figlio il riflesso dell’amore del Padre, l’agire di Gesù quale testimonianza del desiderio di comunione di Dio. La fraternità universale, allora, sarà la naturale conseguenza perché nessuno potrà più rimanerne escluso.