Perdonare è un verbo difficile da coniugare con la propria vita almeno fino a quando si rimane ancorati ad una memoria traumatica o, comunque, ad un pensiero triste che fa assumere il ruolo di vittima di fronte alla storia passata.

Quando l’8 agosto 1991, alla caduta del totalitarismo albanese, nel porto di Bari approdò la nave Vlora con un carico umano di circa 20 mila persone siamo rimasti tutti sgomenti nello scoprire che il paese a noi vicino, di fatto, era stato soggiogato da un totalitarismo completamente ateo in cui il leader indiscusso, Enver Hoxha, non ammetteva alcuna libertà di pensiero e di espressione, pena l’arresto, poi la tortura e finanche la morte.

Nei giorni appena trascorsi in Albania abbiamo registrato i segni di quella feroce dittatura che dal 1944 aveva oppresso con sofferenze immani il popolo albanese. Anziani con il volto ancora segnato dalle sofferenze, alcuni con le lacrime agli occhi raccontavano degli anni di prigionia e delle sevizie ricevute solo perché scoperti nel fare il segno della croce. Guardandoli mi sono più volte chiesto come si può perdonare così tanta cattiveria e, ancora di più, per chi si è visto strappare i figli o i genitori in modo immotivato e senza più rivederli.

È difficile coniugare il perdono anche per chi rimane pieno di se stesso, illuso di essere l’artefice della propria esistenza. In realtà chi non deve rendere conto a nessuno perché “si è fatto da solo”, si convince di essere impeccabile e non ammette alcuna critica. È l’idolatria dei nostri giorni dove il culto di sé si traduce nel porsi in modo spietato verso il prossimo.

Ancora fa fatica a coniugare il verbo perdonare chi organizza l’esistenza attorno al rispetto delle regole e al senso di giustizia pensando che questo possa comprendere tutta la realtà che, secondo questa prospettiva, deve stare dentro un piano calcolato e verificabile.

La vita, di fatto, è molto di più e ce lo ricordano i continui sbarchi sulle nostre coste, più di centoventimila quest’anno, nell’ultima settimana ottomila, popoli che bussano alle nostre porte e chiedono di rimodulare l’assetto quietistico dei nostri giorni.

Il rischio, altrimenti, è quello di mantenere una risposta reattiva priva di visione e di pensiero, calcolata sulle proprie possibilità economiche o, ancora, sui vantaggi da mantenere rispetto a chi manca del necessario per sopravvivere.

Il Vangelo questiona più che mai oggi e, in un mondo globalizzato dove l’informazione è accessibile a tutti, lo rinnega chi sceglie l’indifferenza o l’intolleranza e cioè chi si trincera su posizioni ideologiche prive di ascolto per difendere i propri interessi. La parola evangelica è scandalo perché supera la giustizia calcolatrice e le regole perbeniste. L’osare della fede muove dalla fiducia nel Padre e non nell’uomo.

La pagina di questa domenica (Mt 18, 21 – 35) è una provocazione per tutti. Pietro si fa portavoce dei timori di ogni uomo e cioè di doverci “perdere” nell’affare del perdono!

Confrontarsi con questo aspetto delle relazioni umane equivale ad entrare nel Vangelo perché per vivere da figli del Padre è necessario perdere la superbia del cuore che fa rimanere fermi a ciò che è dovuto, senza aprire alla gratuità dell’amore.

Pietro teme la risposta del Maestro perché organizza la sua relazione con il Cielo basandosi sulle proprie forze pensando di potere seguire la Via da solo o di potere camminare sulle acque o difendere Gesù con la spada. È ancora legato ad un efficientismo religioso con cui garantirsi bravura e meriti di fronte allo sguardo di Dio. Invece dovrà confrontarsi con lo sguardo del Signore dopo il rinnegamento quando, cioè, avrà sperimentato tutta la propria fragilità e paura e, nonostante ciò, scorgere ancora lo sguardo del Maestro che continua a guardarlo senza perderlo di vista.

La preghiera del “Padre nostro” traduce questa prospettiva dove a ciascuno è dato di perdonare perché perdonato da Dio. Siamo capaci di perdono, infatti, solo a partire da questa esperienza ed è la gratitudine per l’amore gratuito del Padre a muoverci con misericordia verso il prossimo.

Nella parabola che ci viene presentata è solo parziale considerare la grandezza del dono concesso al primo servo che è di un valore ben superiore al debito condonato al secondo servo. Quello che merita attenzione è l’atteggiamento retributivo del primo servo che vorrebbe riscattare, nel tempo, quanto deve. In realtà non basterebbe una vita di lavoro ben retribuito per pagarlo.

L’illusione di potere dare un prezzo all’amore di Dio è il grande male che impedisce la gratitudine della fede e generosità del dono. Rimane superbo chi pensa di essersi guadagnato il paradiso e rimane avaro chi pensa di non avere debiti verso il Cielo. Diversamente ama molto chi sa di avere ricevuto un grande perdono da Dio, non tiene conto del male ricevuto chi si sente profondamente amato, mantiene uno sguardo riconciliato chi si sperimenta figlio del Padre.

Questo non significa fare del cristianesimo un incentivo alla dipendenza dovuta alla gratitudine infinita così come una certa psicologia vorrebbe insinuare. Riteniamo, piuttosto, che l’emancipazione individuale non sia da identificare con un’autonomia autoreferenziale. Non è vero che essere maturi significa non dipendere da alcuno ma essere liberi di perdonare gratuitamente senza pretendere nulla in cambio.

La nostra società abbisogna di simile postura per arrivare ad un profondo cambiamento altrimenti si rimarrà sul piano delle analisi o delle belle commemorazioni prive di capacità trasformativa.

È l’esempio che ci ha lasciato don Pino Puglisi il quale a compimento dei suoi giorni con un semplice gesto – un sorriso accompagnato da un “ me l’aspettavo” – ha toccato il cuore indurito dei suoi sicari e, oggi, continua a rivelarci lo sguardo evangelico che appartiene ai figli di Dio.