La precarietà è condizione di vita anche se molti cercano di dimostrare il contrario rinunciando al viaggio personale opponendosi ai cambiamenti propri del quotidiano. Resiste chi fa del presente il luogo stanziale dove trovare pieno appagamento e dunque vive con avidità e frenesia il suo tempo a motivo della brama di accumulare. Resiste, ancora, chi si rivolge al passato con nostalgia e ripiega appoggiandosi ai ricordi più che aprirsi al futuro e, così, cercare alibi per non rischiare l’avventura dei giorni!

La storia, in realtà, ci porta oltre e provoca ciascuno offrendo l’opportunità di assumersi la responsabilità del viaggio perché il cammino abbisogna della perdita dell’equilibrio precedente per aprirsi all’inedito in un continuo processo rigenerativo che ci vede tutti migranti alla ricerca della meta. Per camminare, dunque, è necessario uscire dal calcolo quantitativo che vorrebbe imbrigliare le scelte subordinandole a criteri di “convenienza”.

La premessa, piuttosto, è aprirsi con fiducia al domani sapendo che la scelta di una direzione comporta rinunce e definizione del proprio percorso di vita. Il viaggio principale, però, è l’itinerario che va da se stessi all’altro e fino a quando si rimane centrati su se stessi l’esistenza perde di colore e finisce col ridursi ad un continuo avvitamento attorno al proprio ego, fino a spegnersi.

Di fatto buona parte delle spinte culturali contemporanee sollecitano quest’ultima direzione offrendo, quale garanzia del vivere, solo un’apparente apertura all’altro. La proposta, infatti, è quella di evolversi senza perdere l’equilibrio, gioire senza donare, relazionarsi senza mai chiedere aiuto, vivere senza consumarsi e, secondo questa prospettiva, l’autosufficienza sarebbe il criterio per preservarsi!

Comprendiamo, diversamente, come la storia personale priva della dimensione relazionale si trasforma in una robotica performance carente di emozioni e la ricerca di appagamento finisce con l’alimentare avarizia ed invidia nei confronti del rivale di turno privando del gusto quotidiano.

Riconoscere la preziosità del contributo di ciascuno è l’atteggiamento necessario per favorire l’evolversi delle comunità e la crescita culturale di un popolo, mentre la marginalizzazione di una parte rende tutti più poveri.

La parabola di questa domenica (Mt 25, 14-30) racconta dell’occasione del dono della vita che viene dato a ciascuno. I talenti consegnati dal padrone, in differente misura, costituiscono l’opportunità di condividere quello che si è ricevuto mettendosi in gioco rischiando del proprio. Rende feconda la propria esistenza chi non si appropria dei doni per un tornaconto personale ma chi si compromette consumandosi nel cammino verso la meta.

I talenti, infatti, hanno una connotazione relazionale e sono propri della vita di Dio, sono animati dallo Spirito Santo e dunque dall’amore. Pertanto ognuno ha la possibilità di esprimerli permettendo al dono ricevuto di portare frutti attraverso l’impegno quotidiano. Non si tratta di una mera esecuzione distaccata ma di un coinvolgimento che trasforma chi traffica in quanto si lascia contagiare dal dono ricevuto.

La ricompensa per questi servi, dunque, diventa un partecipare alla gioia e cioè alla vita divina del padrone. Dio desidera condividere la propria esistenza e il cammino umano è la strada per entrare nella comunione di vita con Lui.

Il terzo servo, invece, porta con sé un’immagine menzognera del padrone credendolo spietato e senza scrupoli, e questo pregiudizio lo porta a vivere nel nascondimento dominato dalla paura. Molti con sicura sufficienza ritengono che la vita debba governandosi reggendosi esclusivamente su se stessi secondo una prospettiva egolatra, dove la relazione con il divino non ha spazio e il parametro diventa il conservare per accumulare.

La prospettiva evangelica promette la felicità attraverso il dono e la condivisione secondo la logica del consumarsi per amore. Il verbo “consegnare” riferito ai talenti è lo stesso utilizzato per la consegna di Gesù che nel suo tragitto verso Gerusalemme si consuma sino alla fine. La carità, dunque, diventa la via che apre al Cielo, lì solo l’amore trova cittadinanza e quindi tutto ciò che ne porta il sapore.