Siamo riusciti a coniare nuove definizioni di umanità, come “scarto sociale” o “carico residuale”, per tradurre la prospettiva superba di chi si crede potente in questo mondo ma, questo, indica solo il livello di inciviltà appena raggiunto.

L’indifferenza a cui si sono abituate milioni di persone, assorbite dalla continua ricerca della propria stabilità e ricchezza, procura anestesia del cuore e disinteresse generalizzato.

L’altro diventa invisibile quando l’ego mira ad espandersi in modo onnipotente e questo atteggiamento determina innumerevoli ingiustizie perché a ciascuno è dato di essere custode dell’altro e sottrarsi da questa responsabilità equivale ad abbandonare chi è nel bisogno.

Dare voce ai senza voce di questo mondo è la grande sfida dei nostri giorni e ascoltarli significa interessarsi, mettersi in gioco, rischiare del proprio per favorire la sopravvivenza altrui.

Se stiamo assistendo a catastrofi planetarie che compromettono l’ecosistema di interi Paesi e costringono numerosi popoli ad abbandonare le loro terre in cerca di ospitalità, per garantirsi la sopravvivenza, è perché continuiamo a ragionare in termini individualistici mancando di visione generativa, accecati dagli interessi di pochi.

È necessario il coinvolgimento personale per rimanere in cammino e solo chi si sbilancia, scomodandosi, scopre che non può esserci viaggio esistenziale se si rimane soli.

Il percorso liturgico oggi si apre all’Avvento, un tempo di attesa non passiva ma vigilante e la vigilanza evangelica è propria di chi sa di vivere per un Altro. Nessuno vive per se stesso e l’incontro si costruisce nel quotidiano perché la meta è già racchiusa nella pienezza in cui già si vive il presente che, dunque, non ammette rimandi.

Il Vangelo usa un’espressione particolare in riferimento alla fine dei giorni: dice che “l’uno sarà preso e l’altro lasciato”. Il “prendere” traduce la stessa espressione che viene rivolta dall’angelo a Giuseppe: “non temere di prendere Maria come sposa”. E Giuseppe risponderà accettando il rischio di una strada colma priva di certezze, si comprometterà fidandosi della promessa del Cielo.

Non è il prendere che indica possesso ma accoglienza di una storia che viene a coinvolgere la propria esistenza generando legami e senso di vita.

La direzione, per chi sceglie di rimanere in cammino, è esperienza di reciprocità, storia in cui il limite e la fragilità personale si trasforma in occasione per condividere strada con l’altro. È la proposta cristiana che fa dell’attesa un quotidiano impegno il quale trasforma il viaggio in occasione per prendersi cura e consumarsi per amore degli ultimi.

Tornano in mente le parole che traducono l’obiettivo del cammino sinodale che la Chiesa sta vivendo in questi giorni: “far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani”.