La violenza, vista o subita in prima persona, lascia un solco nell’animo umano, una vena di tristezza che scorre come a mantenere vivo il ricordo dell’esperienza amara da cui proteggersi. Eppure c’è chi si spegne emotivamente anestetizzando ogni capacità di compassione e di dolore, e chi matura una truce reazione trasformandosi da vittima in carnefice.

Nei mesi scorsi abbiamo assistito, esterrefatti,  alla ferma posizione del portavoce di Putin che con fare gelido ha ipotizzato anche l’uso di armi nucleari da parte di Mosca nel conflitto ucraino. Il popolo giapponese, in particolare gli Hibakusha ossia i sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, ha risposto ribellandosi a quelle parole che avevano fatto riaffiorare il dramma subito al termine del secondo conflitto mondiale.

Lo sgomento non ha bloccato la reazione di denuncia come se fosse tornata, sulla loro pelle, la percezione di così straziante ferita. Non si può parlare con leggerezza, come spesso accade, del dolore altrui, lo stesso vale per quanti hanno perso i propri cari negli attentati terroristici o nelle stragi di mafia.

Ripenso alle tante passerelle e parole di circostanza, prive di un fattivo riscontro nella vita, che vengono a riempire le celebrazioni degli anniversari delle stragi. Avremmo bisogno, piuttosto, di più silenzio e maggiore verità.

Lo strappo dovuto alla perdita di un proprio caro per mano violenta è un dolore ulteriore che, oltre lo struggimento per la morte della persona amata, porta la ferita per la ferocia altrui. Come se si trattasse di un tradimento rispetto alla fiducia nel genere umano, un dolore che degenera in rabbia e potrebbe procurare una reazione virulenta priva di controllo.

Molti Hibakusha, invece, facendo tesoro dell’atroce esperienza subita e che continua ad avere dolorose conseguenze nella vita quotidiana, nel 1956 hanno deciso di fondare l’organizzazione Hidankyo per  salvare l’umanità dal delirio distruttivo.

Fino a quando il genere umano adotterà l’uso della forza per opporsi alla violenza altrui, il conflitto non avrà soluzione. L’indice referenziale, per l’inversione di prospettiva, sarà dato dal disarmo e in particolare delle armi nucleari, biologiche e chimiche. Quando, cioè, i Paesi avranno il coraggio di tornare a mediare il conflitto attraverso la parola e l’assunzione di responsabilità.

Non si tratta di un percorso colpevolizzante, credo che il senso di colpa non risolva i conflitti ma li congela in attesa di un riscatto. È il pentimento, piuttosto, a permettere di recuperare le emozioni capaci di contatto con l’altro e con se stessi. Senza l’atteggiamento di ascolto e la scelta del dialogo non può esserci perdono e riconciliazione.

La storia, diversamente, è stata raccontata secondo la prospettiva dei vincitori sui perdenti. La narrazione studiata nei nostri libri scolastici non ha approfondito l’incontro e lo scambio tra le culture ma si è soffermata sulla sequenza di guerre e conquiste, favorendo una precisa identificazione con il vincitore, con l’eroe nazionale, senza offrire una obiettiva riflessione sull’esperienza vissuta da chi veniva schiacciato.

Partendo da tale visione abbiamo scambiato la pace dell’impero romano, ossia la tregua dovuta alla sottomissione di fronte al potente, con la vera pace come se questa potesse essere frutto dell’altezzosità del dominatore.

Molte fasi storiche andrebbero riscritte secondo lo sguardo degli oppressi che sono stati espropriati indebitamente delle loro terre d’origine, della loro identità culturale e, molti, addirittura sterminati. Si pensi agli Indiani d’America o alla storia coloniale che ha adombrato la storia dell’Africa.

La storia, secondo l’orizzonte della pace, andrebbe scritta con un orizzonte inedito: sarebbe la storia dei giusti anche se apparentemente sconfitti. In fondo è la prospettiva con cui vengono scritti i Vangeli.

Ancora oggi sembra paradossale che, sebbene l’ottanta per cento dei Paesi membri delle Nazioni Unite abbia  affermato che le armi nucleari siano disumane, la corsa agli armamenti ha un triste primato nei bilanci della maggioranza dei nostri Paesi che cercano sicurezza attraverso l’accumulo di armi. L’uomo del terzo millennio, scientificamente evoluto, nel mondo sta nutrendo  cinque grandi guerre, diciotto conflitti significativi e venti aree di crisi.

Tutto il Pianeta è segnato da guerre più o meno estese le quali, per la maggior parte, vengono vissute con assoluta indifferenza. Per noi europei, probabilmente, perché non vengono a coinvolgere l’area di interesse commerciale dell’eurozona e dunque le politiche mediatiche le hanno rese invisibili. Anche l’indignazione sembra manipolata dall’informazione e le ferite sociali gestite a seconda dell’interesse di turno!

Mi fa riflettere la storia di Valerio Fioravanti il quale, a fine anni sessanta, impersonificava il piccolo Andrea della famiglia Benvenuti. Una serie televisiva della Rai che riproponeva il modello della buona famiglia borghese in cui ciascuno si immedesimava acquistando fiducia nei valori familiari e nella poetica risoluzione delle diatribe domestiche.

Il piccolo perspicace Andrea, figlio intuitivo e accomodante della fiction televisiva, nella vita reale da adulto è stato conosciuto come lo spietato terrorista esponente dei NAR capace dei crimini più efferati.

La vita non è una finzione e la crescita delle nuove generazioni, l’educazione alla pace e alla non violenza, è un cammino quotidiano che abbisogna di educatori che siano testimoni di vita buona. Dobbiamo essere disposti a sostenere la fatica del mediare, dell’ascolto e della relazione, provocando domande e non imponendo soluzioni, favorendo il confronto con la verità della storia svelandone le contraddizioni e, al contempo, riflettendo sulle possibilità di evoluzione. Abbiamo bisogno di continuare ad emozionarci per il mistero dell’esistenza. Privo di senso del mistero l’essere umano finirebbe con l’appiattirsi, rinunciando al sogno di contribuire alla bellezza di questo mondo e non sarebbe più capace di guarire le ferite dell’anima.