“Ospitalità” è una parola cara alla nostra storia e non solo perché il Mediterraneo è sempre stato luogo di interscambio culturale, e questo è possibile solo per mezzo della reciproca accoglienza, ma anche perché nelle nostre strade l’attenzione verso il viandante, mista a curiosità e rispetto, era evidente per tutti e il sostare per dare indicazioni era il minimo che poteva accadere, era probabile che molti cambiassero itinerario per accompagnare il forestiero.

Di fatto l’accoglienza è costitutiva e se non fossimo stati accolti certo non saremmo mai nati. La relazione, dunque, ci precede sebbene qualcuno persegua la fantasia dell’autodeterminazione.

Ciascuno è frutto del dono altrui perché senza gratuità non ci sarebbe vita e fin dal grembo materno appare evidente che si deve fare spazio dentro di sé per legittimare l’esistenza della creatura appena concepita. Non si tratta solo di un’evidenzia biologica ma anche di un riconoscimento che dice del bisogno che abbiamo di sentirci riconosciuti dall’altro. Senza questo sguardo smarriamo l’identità e la vita perde direzione perché nessuno cammina da solo.

La capacità di accoglienza, dunque, è il parametro che rivela la maturità umana capace di vedere in profondità e oltre le apparenze. Riconoscere l’altro equivale a rispettarne il bisogno di vita ed è perciò che l’ospitalità si coniuga con il custodire e il generare, l’appartenere e lo sperare.

Chi accoglie guarda avanti e non solo se stesso, si sintonizza con l’altro ed amplia la propria visione mantenendo una capacità critica.

Forse proprio questo effetto determina la reazione dei nostri giorni quando a ciascuno è insegnato che deve autocentrarsi per realizzare la propria felicità e deve riconoscere l’utile da ricavare in ogni interazione umana. O, ancora, quando viene eliminata ogni possibile diversità e cioè l’opportunità di interagire con il diverso da sé per crescere.

In modo ideologico si parla tanto di “integrazione” ma questa viene tradotta nel ridurre l’appartenente ad un’altra cultura ad un’automa da indottrinare per sentirsi parte della comunità.

Nei contesti più difficili delle nostre città, invece, scopriamo che il “diverso” ad esempio il minore proveniente da un altro continente, porta una vivacità intellettiva molto più spiccata di tanti normodotati pienamente inseriti nella società dei consumi. Lo stesso vale per i ragazzi che crescono per strada e che non hanno alcuno spazio di accoglienza nelle scuole italiane le quali utilizzano standard di valutazione legati al sapere frutto di un iperadattamento nozionistico. Secondo questi parametri il genio è un disadattato, così chi ha un’intelligenza emotiva, l’artista e in generale il creativo che abbisogna di spazio-movimento per esprimersi!

L’accoglienza, piuttosto, è a perdere e non ammette voto di scambio, non ha prezzo ed è spontanea così come la lingua dialettale che ciascuno parla.

Nel contesto di Danisinni l’accoglienza è tradotta da espressioni che ti vengono consegnate passando per strada: “u caffe ci u pozzu offriri?… Tastasse chiste milinciane… Su purtasse chisto è per vossia…”. La spontaneità sgorga dal cuore e dice della gioia nel dono gratuito e disinteressato perché il bene altrui, in realtà, procura benessere anche al donatore.

Oggi, domenica delle Palme, la rappresentazione della Passione del Signore in piazza Danisinni si svolge in dialetto per esprimere l’intima prossimità tra il Cielo e la terra: è il modo popolare per riconoscere l’autenticità dell’Incarnazione di Dio.

La prima scena vede Gesù entrare su un’umile cavalcatura d’asina come ad indicare la forza della mitezza di fronte alle guarnigioni dei soldati che dominavano Gerusalemme. Tutta la scena della passione fino alla crocifissione si svolgerà su un doppio registro: la consegna dell’umile da una parte e la prevaricazione sfidante di chi si crede forte dall’altra!

È un tema molto attuale quello della forza. Oggi attraverso l’escalation di aggressività immotivata si vorrebbe dimostrare potere sull’altro: da un lato la violenza gratuita e, dall’altro, il contenimento repressivo viene proposto quale antidoto uguale e contrario ma, proprio per questo, incapace di generare processi di cambiamento.

Senza una testimonianza differente che si sottrae alla logica dell’affermazione di sé non è possibile mutare il processo in corso. Gesù propone un’inversione di prospettiva dove l’amicalità che rivolge ai suoi discepoli, nonostante i ripetuti tradimenti, esprime il senso dell’accoglienza per amore loro.

Nutrendo il rapporto con il Padre custodisce lo sguardo d’amore rivolto all’umanità intera, ed è questa postura a farlo accostare a Giuda chiamandolo “amico” nel momento del tradimento. Lo stesso sguardo gli permetterà di rivolgersi al Padre per perdonare coloro che lo crocifiggono. Giuda e tutti gli astanti non lo accolgono e, perciò, non vedono.

Gesù sarà portato fuori le mura per essere crocifisso: la città lo esclude perché Lui è incapace di stare dentro quel sistema di oppressione. Lui che aveva permesso agli emarginati quali storpi, ciechi e lebbrosi, di rientrare nel tempio, ora è messo fuori, consapevole che il tempio del Padre suo è l’uomo vivente e cioè l’umanità capace di accogliere in pienezza la vita che viene dal Cielo.

A differenza di Giuda, Pietro e gli altri apostoli accoglieranno il perdono al mattino di pasqua. Non rimarranno trincerati nella loro sconfitta o ripiegati sul senso di colpa, apriranno lo sguardo trovando quello del Maestro che li attende per donare loro il proseguo della Sua missione.

L’accoglienza, così, diventa necessità di dono, cammino per servire e consumare la propria vita per amore. Se Gesù entra a Gerusalemme è solo per amare sino alla fine, ed è per questo che si è “attendato” in mezzo a noi.

Quando accogliamo il dono dell’altro questo rimane presente attraverso il dono ricevuto, infatti il dono gratuito richiede la scomparsa del donatore proprio perché è atto di fiducia e consegna gratuita. Ciò rimane possibile se si rimane in ascolto del Cielo, altrimenti il donarsi diventerebbe un realizzare la propria opera e il regalo si trasformerebbe in ricatto possessivo dell’altro!

Lo sguardo rivolto al Cielo, piuttosto, permette di custodire la giusta distanza tra sé e l’altro, e l’amore abbisogna di distanza e mai di coincidenza. Il legame non è un legaccio che tiene a sé l’altra persona, come nelle relazioni tossiche, ma un canale su cui lasciare scorrere l’amore gratuito per l’altro, è un sognare che la sua vita germogli fino ad esprimersi in modo autenticamente inedito.