Ci sono cose che non hanno prezzo: i legami gratuiti, l’amore che resiste al dolore, il perdono per l’offesa ricevuta, il dono disinteressato di se stessi. Credo che abbiamo bisogno di ritrovare una gerarchia delle cose importanti perché fino a quando tutto sarà posto sullo stesso piano, allora, la vita sarà incapace di libertà e, quindi, di scelte.
È libero, infatti, chi sceglie e ha il coraggio di mantenere una direzione resistendo alla seduzione propinata dalle alternative, è libero chi genera donando vita, chi si prende cura e permette la guarigione, chi rischia parte di sé per custodire l’altro. Chi pensa solo a se stesso è prigioniero del proprio ego, rimane chino su di sé privo di capacità di direzione. Sceglie chi è generoso sapendo di rimetterci in prima persona. L’avaro non fa scelte perché teme di perderci qualcosa, resta difensivo per accumulare nuovi possessi.
Quando una certa cultura locale ergeva a modello “Cosa nostra” intendendola come cura per difendere i diritti di tutti, in realtà stava pianificando gli interessi di pochi confondendo la protezione con l’oppressione, l’amicizia con l’assoggettamento, la tranquillità con il ricatto. Piuttosto è libero e liberante chi sceglie di condividere il cammino insieme ad altri, chi comprende che la vita ha senso solo in una prospettiva comunionale, chi rimane in ascolto ed è fiducioso nella Parola che viene dal Cielo riconoscendo, così, di non essere lui il centro del mondo. Chiedere il pizzo, invece, equivale ad impedire a tanti lavoratori di guadagnarsi il pane quotidiano onestamente, creando una città più bella e vivibile per tutti; allo stesso modo chi spaccia droga pur di arricchirsi non esita ad impoverire la vita altrui fino a distruggerla totalmente; chi ha ruoli di responsabilità e si lascia corrompere, non solo manca alla missione per cui è retribuito ma pure abusa del suo lavoro servendosene per prevaricare sui diritti altrui.
Mi accorgo, ancora di più durante l’odierna pandemia, che molti vivono governati dalla paura e dunque sempre in difensiva e attacco. Oppure evitando di esporsi, preferendo nascondersi nella propria indifferenza credendo così di potersi salvare da soli e, cioè, dimenticando che senza amore non c’è vittoria. Non è la paura fobica che può salvarci e se perdiamo il tratto di umanità che ci fa tutti solidali allora la sconfitta è assicurata.
La parabola di questa domenica (Mt 25, 14-3) è illuminante nello svelarci il dono prezioso che è affidato a ciascuno e che rischia di essere sciupato se isolato dall’investimento con e per gli altri. Gesù racconta di un padrone che affida i beni del Regno ai suoi servi, a ciascuno secondo le proprie capacità.
Viene affidata, dunque, la comunione con il Cielo e cioè quei doni che scaturiscono dall’amore e vengono indicati come talenti per farne percepire la preziosità, infatti ogni talento equivale al salario di seimila giornate lavorative, la paga di vent’anni.
La chiamata, allora, è relazionale e dunque alla comunione con i beni del Signore, da cui deriva la capacità di donazione, perdono, interesse benevolo per l’umanità tutta. Dio vive il desiderio di condividere la sua Casa con ciascuno e ciò è possibile nella misura in cui la terra è abitata come “Casa comune” e cioè con senso di custodia vicendevole. Ciascuno è chiamato ad attualizzare questo desiderio attraverso le proprie capacità, mettendo a frutto i talenti di cui è custode.
I primi due servi della parabola vivono questa esperienza perché si fidano dell’amore del Padre e dunque dei beni che Lui desidera condividere. Loro rischiano esponendosi e cioè mettendo del proprio, ed è così che i talenti maturano in frutti di ulteriore bene. Al compimento dei giorni questa loro fiducia diventa esperienza di comunione piena, l’apertura che hanno mantenuto nel quotidiano diventa accesso a ciò che è per sempre.
Il terzo servo, invece, ha vissuto sottomesso dalla paura e ha nascosto le sue capacità per timore del padrone. Ha uno sguardo proiettivo che non riesce a cogliere la bellezza del Cielo ma, piuttosto, lo giudica come minaccioso. È la descrizione di quella parte di umanità che attribuisce a Dio le proprie storture e così cerca di giustificarsi, ideologicamente, nel tentativo di garantirsi l’esistenza.
Si impone un interrogativo per tutti: o pretendiamo di essere i garanti di noi stessi, oppure ci si fida del Padre che desidera accoglierci nella Sua stessa vita come figli amati. Di certo in Paradiso non si entra da spettatori!