Il linguaggio dei Nativi Digitali parla di interconnessioni, legami necessari, vie d’accesso aperte alla condivisione, perdita della proprietà per consumarsi a favore dell’altro. È un lessico estraneo alla società dei consumi la quale narra di logiche di successo e di indipendenza, argomenta a partire dall’accumulo e dalla preclusione agli altri, di potere, magari manipolando quanti sono più deboli!
È un confronto difficile quello contemporaneo. Oggi si fa davvero tanta fatica a stare nei legami ed è passato il messaggio che per essere liberi è necessario rimanere indipendenti, in relazione sì ma senza un impegno nel tempo, come se la durata costituisse un pericolo o una minaccia alla propria sopravvivenza.
In questo modo, forse, si ha la percezione di essere quasi immortali, in questioni d’amore eterni adolescenti capaci di rinnovate primavere e nelle relazioni amicali perfetti narcisi che si disfanno dell’amico importuno che, magari, muove una critica proprio perchè vuole bene.
È così che viviamo un’epoca senza tempo, immersa in un fluttuante presente che vorrebbe a tutti i costi esorcizzare la morte ossia la fine del tempo.
Paradossalmente quello che l’umano si nega, cioè il legame d’amore, è quello che di fatto gli permetterebbe di andare oltre la precarietà dei giorni fino ad immergersi in un tempo pieno che non ha tramonto proprio perchè l’amore è ciò che accomuna la terra e il Cielo.
L’etimologia della parola amore, secondo la radice sanscrita e quella greca, rimanda al desiderio e a quel coinvolgimento che muove da dentro e che rende dimentichi di se stessi per l’altro e cioè totalmente presenti a se stessi per mezzo dell’altro. Ancora, è la radice latina a-mors e cioè senza morte, a darci il senso di un legame che va oltre la morte rendendo capaci di donare la propria vita per amore dell’altro.
Questo atteggiamento esprime il “consumarsi” evangelico e cioè il donare senza serbare nulla di proprio fino a consegnarsi così come il sale che reca sapore e custodia a ciò che lo accoglie. Due aspetti da tenere sempre connessi tra di loro. Il conservare integro, cioè il custodire, è proprio di chi dona vita e quindi sapore ai giorni. Non custodisce chi si appropria o tiene avidamente ciò che ha ricevuto in dono, ma chi ne permette l’espressione e la creatività.
Si pensi al custodire proprio del padre e della madre il quali sono chiamati a consegnare al mondo i loro figli, se li chiudessero nello stretto rapporto parentale ne priverebbero la vocazione ossia la risposta alla chiamata personale e dunque ne spegnerebbero la missione.
Il sale donato, inoltre, procura sapore, gusto che mette in risalto il sapore delle pietanze. Tale sapore è proprio della sapienza cioè di quella conoscenza che non è una mera autocelebrazione ma desiderio di consegnare agli altri esperienze e saperi in modo da arricchire chi sta di fronte.
È la logica dei nativi digitali che permettono l’accesso alle loro conoscenze condividendo ciò che conoscono per il gusto di fare del bene. La relazione di aiuto, in questi casi, diventa un qualcosa del tutto naturale e l’interscambio di informazioni risulta ovvio essendo immotivato il contrario.
E’ lo stesso principio che regola l’agroecologia dove la custodia per la terra diventa cura di quello che è coltivato seguendo un criterio naturale, senza forzature frutto della propria brama di controllo e di relativo consumo. La coltivazione, dunque, è pure espressione della missione di bene che è affidata all’umanità tutta, perchè la terra è il pianeta che può custodirci nella misura in cui viene custodito.
Condividere e non sfruttare, allora, è un principio di vita che ci riconosce fratelli e non nemici, chiamati alla comunione piuttosto che alla competizione. È il motivo per cui la Comunità cristiana veniva indicata come capace di condivisione del cibo nella letizia e nella semplicità di cuore.
Per il cristiano il cibo ha valore se è “pane nostro” che rimanda ad una relazione verticale con il “Padre nostro” e pertanto ne esprime la gratitudine e la relazione d’amore. E rimanda, pure, al vicino con cui condividere facendosi prossimi. È il movimento proprio dell’interesse per l’altro che si oppone all’indifferenza, è l’accostarsi proprio del prendersi cura affinché l’altro possa crescere.
Già in sé il pane esprime il morire del chicco di grano che si mischia, nella farina, ad altri chicchi. Non si tratta del vanto personale ma del frutto della comunione che, pertanto, va condiviso. La gioia che scaturisce dalla comunione con il Cielo e cioè il sentirsi amati come figli, diventa inclusiva e comunionale perché non ha nulla da temere in quanto ci si percepisce dono.
Anche l’indicazione “con semplicità” rivela la libertà che porta alla condivisione. La semplicità nell’accezione ebraica indica un terreno sgombero, senza sassi, cioè capace di accoglienza senza resistenze e ostacoli.
Non è possibile partire dalla condivisione dei beni, quello rimarrebbe un atto di superiorità e finirebbe con il nutrire la superbia o la rivendicazione nei confronti dell’altro così come è per ogni ideologia, invece il condividere è frutto di un cuore che custodisce la relazione con il Cielo.
Nel linguaggio biblico il cuore indica la sede non solo dei sentimenti ma del pensiero e del credere, è la persona nella sua complessità e, dunque, non vivisezionabile. Il cuore batte per le cause che sono care, per le persone amate ma anche per il soffrire altrui chiunque esso sia, il cuore non è frutto del mero calcolo raziocinante.
Riconoscersi legati al cuore proprio del Cielo ci rimanda a fare delle scelte autentiche, qui in terra, anche se queste hanno un prezzo e, magari, trovano l’incomprensione. È così che il Vangelo ha rivelato il volto del Padre, capace di dono senza esitazione dinanzi alle ostilità del genere umano. Un legame che non si lascia spezzare neppure dalla morte.