Questa domenica, alla vigilia del trentennale della strage di Capaci, ancora una volta la Parola di Dio ci permette di leggere la storia e di illuminare la strada da percorrere.

La prima immagine è quella degli apostoli i quali sono indicati come testimoni credibili in quanto hanno rischiato la vita per la Parola che annunciano. Questa testimonianza non verrà meno anche dopo il loro martirio e, piuttosto, nel testo dell’Apocalisse proprio per questo sono indicati come basamento della città santa. Non una Gerusalemme ideale ma concreta che ha come centro l’Agnello che per primo ha donato la vita per tutti.

La Parola, dunque, ci propone una chiave ermeneutica per comprendere, oltre le apparenze, ciò che dà senso alle cose. Viene rivelato, dunque, un modo differente di spendere la propria esistenza: non secondo la logica del preservarsi per accumulare ma del consumarsi per generare.

Ricordiamo come nella nostra terra la stagione delle stragi era stata preceduta, negli anni ottanta, dalla nobile testimonianza di uomini come Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre e Rosario Di Salvo, Carlo Alberto dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo, Calogero Zucchetto, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Mario D’Aleo, Rocco Chinnici, Beppe Montana, Ninnì Cassara, Antonino Agostino e la moglie Ida Castelluccio e tanti altri, come imprenditori o giornalisti, che avevano creduto nei valori della giustizia e del bene comune da difendere per custodire i cittadini, e soprattutto i più deboli, dalle soverchierie dei potenti di turno.

La difesa degli oppressi è un tema biblico fondamentale. Puntualmente i profeti denunciano i torti fatti agli “ultimi” i quali rimangono i prediletti di Dio, fino ad arrivare al Vangelo dove Gesù si identifica con loro: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Pensare che centinaia di persone possano organizzarsi per compiere il male, così come in modo minuziosamente calcolato fanno le mafie, è davvero triste perché equivale a scegliere di morire già da vivi: è già morto, infatti, chi si nutre dell’odio per i simili. Per quanto il sistema mafioso voglia scimmiottare i valori del bene parlando di famiglia, amicizia, fede in Dio, protezione e generosità, in realtà non ammette legame se non quello della convenienza del momento, secondo la quale l’amico di oggi potrà presto diventare un acerrimo nemico da eliminare!

Paradossale, altresì, è il credersi cristiani e al contempo mafiosi pur sapendo che il codice dell’organizzazione agisce in perfetta antitesi alla legge evangelica. Cosa Nostra, dunque, appare come una farsa dove gli attori in primo luogo prendono in giro se stessi. Perfino le processioni o le feste religiose, frequentate per sfoggiare la propria “grandezza” e affermare il proprio potere, vengono percepite come aspetti dello status mafioso ma, in realtà, esprimono una religiosità pagana fatta di idoli da asservire a se stessi.

Il Vangelo di oggi (Gv 14,23-29) ritorna alla centralità dell’amore. Non c’è altro verbo che possa coniugare il rapporto con Dio e solo chi si lascia amare da Lui trova un criterio nuovo per vivere. È l’amore a muovere ogni cosa e a convincere in merito alle scelte opportune anche se queste hanno un prezzo.

Scoprirsi amati da Dio apre alla gratitudine e allo spendersi per la causa del bene anche quando non è corrisposto o addirittura osteggiato. In questo senso va inteso il messaggio evangelico della pace che dona Gesù, è diversa da quella che suggerisce il mondo quando propone tregue fondate sull’interesse economico o sulla sottomissione altrui. In fondo anche la pace proposta dalle mafie è fondata sul potere, come nel caso della protezione che ha il prezzo dell’assoggettamento o dell’amicizia che è intesa con il tenere in ostaggio l’altro che ha chiesto i favori necessari.

La pace evangelica fa attraversare la causa della buona battaglia rimanendole fedele malgrado le persecuzioni e le minacce. Non acquieta e non passivizza, piuttosto chiede di compromettersi per custodire il rapporto con Cielo e, quindi, difendere il bene senza rimanere spettatori là dove questo viene oltraggiato.

Uomini come Falcone e Borsellino hanno fatto della passione per la giustizia e per la causa della legalità e la difesa del bene comune, il motivo per cui vivere, per cui spendersi senza riserve. Tanti prima di loro erano caduti per lo stesso motivo e proprio questo esempio comunicava loro una spinta in più per non tirarsi indietro e proseguire il cammino già tracciato

Sappiamo come la nostra terra di Sicilia è stata resa ulteriormente feconda dal loro sangue, ed è responsabilità comune custodire quanto ci hanno consegnato. Anche per loro vale il monito del proverbio indios: “hanno provato a seppellirci ma non sapevano che eravamo semi”.