Orientarsi nella complessità della vita non è cosa semplice, definire ciò che è meglio e perseguirlo richiede una scelta quotidiana che, spesso, deve essere anche capace di andare controcorrente.

Molti, invece, trovano la soluzione adagiandosi nella moda del momento e, quindi, vivere di opinioni attendendo dai programmi televisivi o dai social la verità da perseguire. Uno stile esistenziale che, alla fine, appiattisce spegnendo l’animo umano, così, condannato alla tristezza e alla solitudine.

Per non cadere nella trama della noia esistenziale abbiamo bisogno di custodire e continuamente rinnovare il sapore della vita. Ciò non significa ricercare appagamenti compulsivi come vorrebbe la spinta consumistica, ma lasciarsi provocare dagli accadimenti e dagli incontri quotidiani e, quindi, apprendere come dare il proprio contributo al fattivo cambiamento per la crescita personale e comunitaria.

La passione del vivere, cioè, non è nutrita dal preservarsi o dal consumare le cose ma dal partecipare mettendosi in gioco e questo richiede umiltà e ascolto, consapevolezza di non bastare a se stessi riconoscendo che l’altro è dono da scoprire.

È allora che la vita può continuare a sorprendere facendo uscire dalla monotonia o dalla tristezza per ciò che ha scombinato quanto si era precedentemente programmato. La ricerca della felicità, secondo questa prospettiva, sta nel rimanere in viaggio senza ancorarsi al passato ma facendo tesoro di quello che si è appreso per potere meglio aprirsi alla novità del futuro.

Nella pagina del Vangelo di oggi (Lc 24, 13 – 35) l’episodio dei discepoli di Emmaus mostra il travaglio esistenziale di chi rimane ripiegato sui propri ragionamenti fino a quando non ci si apre a prospettive inedite.

I due discepoli hanno visto fallire la loro aspettativa: l’idea che il Maestro avrebbe sconfitto l’oppressore romano uscendone vincitore. Gesù, piuttosto, era stato crocifisso e questo aveva demolito ogni possibile parvenza di riscatto.

Per loro era tutto perduto, si sentivano umiliati da quell’epilogo che aveva messo in discussione la loro fiducia nel Cielo. Di fronte alla prova reagiscono con rigida chiusura e, infatti, loro si dicono “sconvolti” dalla notizia della tomba vuota e, cioè, non lasciano spazio ad un orizzonte diverso rispetto a quanto avevano preventivato.

Sono talmente chiusi da non riconoscere il Risorto che si mette in cammino con loro. Lui ascolta i racconti di morte che si lanciano addosso: la mormorazione frutto del risentimento e di un pensiero triste. Pensano che il viandante che li accompagna sia uno straniero perché non conosce la loro verità, così come è considerato straniero chiunque abbia un pensiero divergente. Apparentemente cercavano la libertà ma, di fatto, non danno spazio alla diversità, sono disposti a sintonizzarsi solo con chi ha un sentire omologato al loro!

Gesù fa una lettura differente mostrando che proprio quell’epilogo, solo apparentemente fallimentare, rivela il compimento delle Scritture. Eppure il Suo racconto, sebbene costituisca una verità troppo distante dalla loro mentalità, procura vicinanza del cuore perché rivela il linguaggio dell’amore.

Per quanto si resista, l’amore è l’unico parametro di lettura dell’esistenza personale e quando si apre uno spiraglio all’incontro autentico, accade una rivoluzione interiore procurando un cambiamento di prospettiva e di sentire.

Corrisponde all’esperienza che abbiamo quando incontriamo un testimone di vita, non un parolaio o un conferenziere che narra belle teorie, ma quando la relazione genera intuizioni attivando capacità personali di esprimere il dono di cui ciascuno è portatore. È l’arte dell’educare dove il formatore favorisce la libertà di espressione, di desiderio e di passione per il bene e, quindi, non comprensione di nozioni ma tensione verso un oltre da scoprire senza più rimanere spettatori.

I discepoli ritrovano un sapore che avevano smarrito, è il calore che muove aldilà delle logiche e che porterà gli apostoli ad annunciare il Vangelo rischiando in prima persona fino al martirio, che non sarà più letto come fallimento ma come dono totale per amore.

Rintracciamo questa lettura esistenziale in tutti i testimoni di ogni tempo. A trent’anni dal martirio di don Pino Puglisi, sappiamo come la sua esistenza, così come quella di tanti altri, non è stata vana. Il loro sangue ha bagnato la terra di Sicilia e ha generato desiderio di bene, riscatto di fronte al potente di turno, capacità di contribuire facendo la propria parte.

I discepoli riconosceranno il Maestro quando spezzerà il pane, allora apriranno gli occhi e Lui scomparirà dalla loro vista perché, ormai, lo custodiscono nel cuore.

Ecco la differenza tra un eroe che viene mitizzato e tenuto in alto, quale modello esteriore da imitare, e il Signore che si consegna ai discepoli, donando la vita, affinché ciascuno possa esprimere la vocazione personale.

Essere guariti dall’amore del Cielo porta ad esprimere l’esistenza nella linea dell’amore e, così, rendere ancora più ricco il nostro mondo.