Nella politica dei nostri giorni vige una strategia oppositiva provocatoria dove ciascuno è invitato a contraddire puntualmente l’avversario del proprio schieramento per dichiarare apertamente da che parte sta. Molti politici, ad esempio, anziché descrivere il proprio progetto impiegano il tempo utile, per denunciare le mancanze dell’antagonista ma questa postura, oltre a ferire la capacità di dialogo, impedisce di costruire percorsi generativi continuando a distrarre rispetto al vero compito della politica e cioè la cura della società civile.

Se alla cultura dell’ “anti” si preferisse quella del “pro”, l’attenzione comune sarebbe orientata sul da farsi per favorire lo sviluppo dei territori contribuendo all’emergere della parte sana della nostra società che, altrimenti, rischia di rimanere misconosciuta e penalizzata.

I cambiamenti sociali, infatti, sono frutto di processi culturali che vanno promossi se realmente l’obiettivo è la crescita della comunità, diversamente si cade in una retorica perbenista, magari radical chic, ma priva di effetto.

I miglioramenti, in primo luogo, devono rivolgersi alla cura dell’essenziale e cioè leggere i reali bisogni dei territori rinunciando alle teorizzazioni che vorrebbero applicare belle idee ma senza rispondere alle fattive richieste della gente. Questo non significa rimanere su un piano emergenziale regolato da un sentire schiacciato sui bisogni immediati, ciò priverebbe di visione, ma comporta l’accompagnare l’emersione di un sogno condiviso investendo tempo ed energie fino a compromettersi con l’altro.

La capacità di ascolto rispettando i tempi collettivi, in realtà non è scontata. Essa richiede ora di rimanere in attesa  e al momento propizio di trainare per portare oltre le apparenze o la rassegnazione dovuta alle ferite esistenziali. Il criterio non è l’efficientismo e, tantomeno, il successo ma la fiducia nella capacità di riscatto propria dell’umano.

Non si tratta, ancora, di cercare consensi che andrebbero a legare in compromessi volti al tornaconto individuale, come accade quando la politica si allea con le mafie e le lobby di potere, piuttosto è l’ascolto che sfida le resistenze fino a fare venire fuori il desiderio profondo di partecipazione al bene collettivo esprimendo la propria originalità creativa.

Bisogna tenere conto, inoltre, che lo sviluppo culturale non è un processo lineare o deterministico e non si può ridurre l’umano ad un fattore contestuale attribuendo la riuscita di ciascuno alla buona sorte che accomuna alcuni e scarta altri.

Se pensiamo alla nostra Città e a quartieri come la Kalsa in cui sono cresciuti grandi uomini come Falcone e Borsellino ma anche boss criminali, ci rendiamo conto di come non sia possibile utilizzare una chiave ermeneutica lineare e generalizzante, come se da una causa dovesse scaturire necessariamente un preciso effetto. Dallo stesso territorio, infatti, possono venire fuori grandi testimoni di umanità così come figure feroci e disumane.

Dunque è possibile credere nel riscatto di ogni contesto e di ogni persona ma è necessario contribuire alla fattiva crescita attraverso un’incessante opera di rigenerazione dettata da azioni che contrastano la povertà culturale e, quindi, la povertà educativa, restituendo dignità personale e diritto al futuro.

Quando una periferia urbana come Danisinni è stata privata dell’asilo nido, chiuso per disinteresse da parte dell’Amministrazione locale, il territorio nell’arco di un decennio è regredito in una subcultura che ha cercato di autodeterminarsi per fronteggiare la precarietà e lo stato di sempre maggiore abbandono. Questa è la tipica conseguenza di una politica distratta che perde il contatto con i luoghi.

Tale considerazione su quello che accade ai nostri giorni non può lasciarci spettatori inermi e pertanto è necessario che ogni organizzazione, movimento, agenzia educativa eserciti il suo ruolo politico per contribuire ai processi generativi.

La Comunità di Danisinni ha scelto la cura dei volti e dell’ambiente quale percorso di rigenerazione umana ed urbana perché lo spazio racconta la qualità dei legami di chi lo vive e, in contesti di particolare marginalizzazione, non ha senso promuovere stili di vita buona senza prendersi cura dei luoghi abitati e della loro bellezza paesaggistica.

Luoghi freddi e organizzati secondo un utilitarismo frenetico sfaldano i legami e producono sempre maggiore violenza e processi di disumanizzazione. La cronaca delle nostre città è anche frutto di questo misconoscimento e senza sogno di bellezza l’individuo si abbrutisce dando il peggio di sé.

Crediamo, piuttosto, che è necessario attraversare la storia a cui apparteniamo entrando anche nelle contraddizioni più complesse per prendercene cura e, così, andare oltre ma non da soli.

Uomini come Falcone e Borsellino hanno esercitato la loro azione politica dando spazio e voce all’umanità che vive la nostra terra piagata dal male mafioso. Avevano colto, cioè, che la custodia del bene comune riguarda tutti e l’ospitalità non è questione formale ma significa farsi carico dell’umanità ferita e della complessità in cui vive.

Loro sentivano la responsabilità morale per la gente che gli moriva attorno e mai avrebbero scelto l’indifferenza. Borsellino raccontava la loro battaglia con queste parole: “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

L’agire politico, dunque, deve partire dal sentire la bellezza del fresco profumo della nostra terra per proporre un nuovo quotidiano alla gente che attende di essere rappresentata.