Abitare la terra è una questione molto rilevante ai nostri giorni. Da come abitiamo si deduce la direzione del cammino e, dunque, l’orizzonte verso cui si è rivolti.

Abitare da predatori è proprio di chi riduce l’esistenza ad una stanzialità che dovrebbe appagare procurando pienezza e felicità. Simile aspettativa puntualmente delude e procura un insaziabile accumulo di esperienze e possessi che, alla fine, lascia sempre più vuoti. Lo sfruttamento del pianeta, ad esempio, procura povertà e continui esodi di popoli in diverse aree geografiche perché la priorità è data alle politiche economiche e non alle relazioni umane.

Secondo questa prospettiva si provoca continua esclusione di popoli, si privilegiano alcuni per discriminare altri e ciò procura versamento di sangue in ogni parte del mondo. Le guerre in atto, i muri divisori e il Mediterraneo trasformato in frontiera di morte, sono solo alcuni sintomi di questo scenario che genera inimicizia tra gli uomini.

L’abitare, piuttosto, è questione relazionale e ciò procura rapporti di reciproco riconoscimento, confini identitari che fanno delle frontiere luoghi di transito, soglie da cui affacciarsi all’altro.

Ripartire dall’abitare le relazioni è la vera sfida a cui dobbiamo dare risposta. Ciò significa tornare all’ascolto perché vede chi ascolta e non chi agisce secondo la cultura dell’apparenza. Dall’ascolto matura l’interiorità necessaria per fare spazio all’altro e rimanere in cammino.

Accoglie, infatti, chi cammina e quindi rimane disponibile all’incontro e alla condivisione con l’altro. Nell’isolamento difensivo, altrimenti, la visione relazionale viene meno e i rapporti umani vengono strumentalizzati in base agli interessi di turno. Paradossalmente gran parte della spinta mediatica contemporanea va in questa direzione al fine di manipolare il consumatore di turno.

Giovanni Battista, figura che ci viene presentata nel Vangelo di oggi (Gv 1, 35 – 42), riparte dall’ascolto e così tornare al rapporto con il Cielo e con il prossimo. Nell’Israele del tempo cerca di curare la frattura che si era creata e che vedeva usare la pratica religiosa per soverchiare i poveri e gli altri popoli. Israele aveva smarrito l’ascolto di Dio e, dunque, Giovanni era ripartito dal deserto e da un luogo significativo quale era il Giordano. Luogo di passaggio alla terra promessa e dunque frutto di una relazione con il Cielo che veniva a rivelare la custodia dei rapporti umani.

Nel Giordano lui aveva invitato ad immergersi riconoscendo la propria fragilità e precarietà. L’umiltà, infatti, è alla base dell’ascolto e quindi della capacità di vedere. È il primo a riconoscere in Gesù il messia atteso e, di conseguenza, orienta a seguire Lui. Il testimone non parla di se stesso ma rivela la presenza dell’altro e la testimonianza di Giovanni mostra l’atteggiamento di chi condivide il dono ricevuto per camminare insieme verso la meta.

L’abitare questo mondo da colonizzatori si traduce nella pretesa di essere luce e verità per l’altro, dinamica tipica del narcisismo onnipotente di alcuni. Piuttosto Israele nel deserto è chiamato a riscoprire le sue origini quando si mette in cammino perché Dio si era rivelato come presente nel cammino del suo popolo. L’attendarsi del Cielo descrive un rapporto di fiducia e di ascolto, di sequela e non di stasi. I discepoli di Giovanni chiederanno dove abiti Gesù e Lui rivelerà che la sua casa non è una tana ma il farsi prossimo agli ultimi rimanendo in cammino verso il Padre.

È questa la chiamata cristiana: luogo di prossimità consumandosi nell’amore. La testimonianza di don Pino Puglisi incarnata nel contesto di Brancaccio mostra cosa significhi abitare la storia sino alla fine.