Siamo tutti precari in questa vita e non è possibile fermarsi al presente, magari cercando garanzie per non rischiare l’avventura dei giorni, ma abbiamo solo l’opportunità di assumerci la responsabilità del viaggio.

Camminare equivale a perdere l’equilibrio precedentemente trovato, senza questo sbilanciamento sarebbe impossibile muoversi e fin dalla nascita è necessario smarrire la stabilità di prima altrimenti anche il grembo materno, così confortevole e basilare nei primi nove mesi, diverrebbe luogo di morte.

Chi continua a stare nel quotidiano rivolto con nostalgia al passato, allo stesso modo, rischia di spegnere ogni desiderio privandosi del futuro.

La storia è utile per imparare a orientare il cammino forti dell’esperienza già acquisita ma è necessario mettersi in gioco nuovamente, altrimenti si cadrebbe in una idealità fuorviante che lascerebbe spettatori della propria esistenza.

L’umano, dunque, oscilla tra un già e non ancora, tra un’esperienza raggiunta e una novità ancora tutta da scoprire, ma non ci è dato di comprendere o calcolare il momento presente, questo ci sfugge continuamente e, piuttosto, lo si può capire solo dopo averlo percorso.

Il fiume che scorre rende fecondo quel che attraversa ma se quel corso si fermasse, lo stagnarsi del flusso ne spegnerebbe la vitalità. Noi siamo in continua trasformazione e sebbene ci percepiamo nel momento presente, in quello che concretamente stiamo vivendo e sentendo, non siamo riducibili ad esso.

Ciascuno porta con sé un mondo interiore frutto delle esperienze pregresse, un modo di percepirsi nello spazio e nel tempo che arriva ad una sintesi sempre nuova. A nostro avviso è rischioso esaltare il riferimento al “qui e ora” come se fosse il criterio della maturità umana e della salute psicologica, perché potrebbe impoverire la percezione della propria esistenza riducendola al segmento presente, privandola di visione e di capacità di progettazione rivolta alla meta.

Il “qui e ora”, piuttosto, è da intendersi come un’intuizione di quello che siamo o, meglio, un presagio di ciò che stiamo divenendo. Il contesto, inoltre, rimane necessario per esperire la vita e non si tratta solo dello spazio fisico tangibile ma facciamo riferimento anche ad uno spazio relazionale segnato dalla vicinanza e dalla lontananza, dal calore emotivo e dalla distanza nel tempo.

Abbiamo bisogno, dunque, di intendere il presente nel suo divenire, percependo la continuità storica che procura identità da non intendersi come fuga nel passato o in un ideale futuro.

Chi vive stando a procrastinare ogni cosa perde le occasioni della vita ponendosi su un piano deresponsabilizzante. Quante occasioni sciupate dall’uomo contemporaneo: le giornate organizzate secondo una continua corsa contro il tempo, itinerari di formazione abbandonati, date matrimoniali ripetutamente prorogate in cerca del “vento favorevole” e persino il concepimento dei figli rimandato in attesa delle dovute garanzie.

I latini con la locazione “carpe diem”, attribuita ad Orazio, non intendevano l’attimo da spremere come se fosse un frutto da cogliere in quanto maturo, piuttosto indicavano l’afferrare il giorno e cioè l’assumersi la responsabilità di quel che si sta vivendo spendendosi pienamente nell’oggi e, quindi, senza rimandare al domani.

La lingua greca, similmente, ha indicato nel kairòs il momento opportuno in cui è possibile intuire quel che è essenziale. Il cristianesimo arriverà ad una sintesi rintracciando nel kairòs il tempo di grazia in cui Dio si rivela all’essere umano e, di conseguenza, nel senso biblico l’ “ora” esprimerà il momento propizio e il compimento di tutto.

Il senso del tempo rivolto verso la meta, dunque, in modo inedito viene a definire il momento presente. Non si tratta della velocità per raggiungere la meta ma dell’essere orientati verso di essa. Il viaggio, pertanto, esprime già l’importanza del vivere.