Cercare la felicità è il desiderio di tutti, ma davvero poco si presta attenzione ad educare alla felicità, come se fosse un’arte innata che non abbisogna di particolari indicazioni.

Nel contesto libertario in cui viviamo, piuttosto, l’esperienza della gioia viene associata alla trasgressione del limite, come se attraverso l’elusione delle regole e dei confini automaticamente l’individuo potesse trovare un appagamento capace di procurare felicità.

La risultante, però, è che la gente vive sempre più frustrata, svuotata interiormente e lacerata a motivo delle molteplici dipendenze. L’individualismo tanto propinato dal sistema consumistico, di fatto, ha strappato la gioia del vivere consegnando l’esistenza ad un girovagare privo di meta.

Nel Vangelo di questa domenica (Lc 3, 10-18) la questione torna prorompente attraverso una domanda che attraversa il dialogo tra Giovanni Battista, la folla, i pubblicani e i soldati.  “Cosa dobbiamo fare?” è l’interrogativo posto e la risposta non si risolve nel trovare un mero attivismo pago delle opere realizzate, ma nel rimandare ad un atteggiamento interiore che inizia con il fare spazio dentro di sé.

L’individuo autoreferenziale non trova felicità perché è pieno di se stesso e, quindi, incapace di ascoltare ed accogliere l’altro. Non c’è gioia nell’isolamento e la relazione umana non può essere sostituita da nessun rapporto oggettificante per quanto possa dare la parvenza di essere onnipotenti.

Non è felice chi possiede ma chi dona, non chi vive per se stesso ma per l’altro, non chi accumula ma chi si consuma per amore.

È pertanto che Giovanni dà delle indicazioni chiare ai suoi interlocutori: condividere del proprio perché il di più rende indifferenti di fronte al bisogno altrui; servire senza appropriarsi ruoli assunti ma rimanendo strumenti del bene; custodire l’altro facendo del proprio potere il luogo della responsabilità verso il fratello.

In sintesi la prospettiva evangelica che apre alla felicità è quella propria della relazione fraterna dove il rapporto con le cose o il denaro è solo strumentale al bene condiviso e mai utile alla esclusiva autorealizzazione.

Ci sono persone che corrono verso una escalation sociale sempre più elevata per arrivare ai primi posti e, così, guardare dall’alto in basso tutti gli altri. Questi individui diventano avidi di sé e umanamente ciechi perché competitivi e schiacciati da una logica di inimicizia: l’altro, dunque, è considerato una minaccia!

Giovanni Battista afferma questo orizzonte dall’austerità del deserto, il luogo della solitudine dove non conta alcuna apparenza ma solo l’ascolto. È lì che l’udito rende capaci di vedere e di discernere quel che davvero conta.

Ma in quel contesto così austero Giovanni dovrà lasciarsi ulteriormente destabilizzare per arrivare alla vera gioia: prima dovrà accogliere il Messia che si mette in fila con i peccatori ammettendo che il liberatore si fa estremamente prossimo accorciando ogni distanza; e poi dovrà accettare, nel mentre che è in imprigionato perché ha denunciato la colpa di Erode, che i potenti di questo mondo non hanno alcuna vittoria ma l’unico potere che conta è quello che viene dal Cielo, e dovrà ammettere tutto questo anche se di lì a poco sarà condannato a morte!

C’è una gioia che nessuna violenza umana potrà mai estirpare e  che malgrado le ingiustizie e l’apparente successo degli oppressori, rimarrà per sempre perché è forte della promessa di Dio.

Non si tratta di fare qualcosa ma di accogliere il dono d’amore del Cielo, lo Spirito Santo che fa nuove tutte le cose restituendo vita a quando era stato violato e che muove interiormente nello spendersi per la causa del Bene. Tornano in mente le parole di don Pino Puglisi: “Ognuno di noi sente dentro di sé una inclinazione, un carisma. Un progetto che rende ogni uomo unico e irripetibile. Questa chiamata, questa vocazione è il segno dello Spirito Santo in noi. Solo ascoltare questa voce può dare senso alla nostra vita”. Ecco la vera gioia!